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venerdì 15 maggio 2015

Fraccazzo e i Barconi



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Fraccazzo da Velletri nacque un giorno afoso di agosto in una sala-parto climatizzata dell’ospedale di Velletri. Non essendo forte abbastanza da attaccarsi al seno materno, ebbe bisogno, fin da subito, di una tettarella morbida che non opponesse troppa resistenza, di un latte artificiale multivitaminico e di un biberon ultra tecnologico a modulazione di velocità di flusso. Fosse nato in qualche Stato un po’ più a est, non avrebbe raggiunto l’anno di età ma, per sua grande fortuna, in quel dato momento tutto ciò di cui aveva bisogno si trovava in qualsiasi farmacia di Velletri.
E così Fraccazzino, passando dal latte speciale a pappette morbide e vellutate, non solo poté festeggiare il primo compleanno ma, con l’aiuto di pediatri e antibiotici, giunse in ottima forma anche al secondo, e andò avanti col terzo fra giocattoli e cartoni animati, mentre al quarto ci arrivò in bicicletta, e al quinto invitando gli amichetti in piscina. A sei anni cominciarono le elementari e si capì fin da subito che lo studio non era il suo forte. Lasciato a se stesso, Fraccazzino non sarebbe arrivato alle medie ma, per fortuna, sua mamma, tenace, lo seguiva tutte le sere nella lettura, mentre il papà lo aiutava coi calcoli e la geometria. Poi, lezioni private alle superiori e aiutini di ogni genere all’università, completarono l’opera, e alla fine, come un ciclista che taglia il traguardo fra le spinte e le incitazioni dei propri tifosi, Fraccazzo discusse la tesi, si laureò e poté farsi una targa di bronzo con su scritto a caratteri cubitali: Dr. Fraccazzo da Velletri.
Il resto piovve dal cielo come tanti biberon ultra tecnologici: la macchina, la casa, il circolo tennis, gli agganci politici, le amicizie importanti, il matrimonio, le vacanze, due figli, la pancia e un ego gigante.
Come un neonato impazzito convinto di essersi costruito la culla, Fraccazzo si compiacque della sua posizione sociale, considerandola il frutto del suo duro lavoro e, non trovando in se stesso altri meriti, concluse che il valore di una persona fosse dato dal suo conto in banca. Perciò, per difendere il proprio orticello, in politica corse il rischio di schierarsi dalla parte dei più forti, lottando senza paura contro chiunque non potesse difendersi: zingari, extra-comunitari, omosessuali, rumeni, pachistani e albanesi. I campi Rom, poi, li avrebbe rasi al suolo, tutti. Perfino quando i governi da lui sostenuti lo ridussero a contare i soldi prima di fare la spesa, diede la colpa ai barboni. E mentre i suoi deputati, ogni giorno, rubavano quello che i Rom avrebbero accumulato in decenni di furti serrati, Fraccazzo additava i barconi di gente indifesa come l’origine dei mali del mondo.
Su uno di quei barconi, il suo bisnonno aveva raggiunto l’America e con le lacrime e il sangue aveva costruito per lui quella culla ovattata dalla quale adesso Fraccazzo sputava addosso al dolore.
Lui, che senza il suo biberon non sarebbe vissuto più di qualche giorno, li avrebbe ricacciati indietro a pedate e avrebbe chiuso le frontiere lasciando che morissero di fame o ammazzati in guerra. Ma non era cattivo, non lo faceva per malvagità, aveva uno scopo nobile, voleva evitare che altri bisnonni si scorticassero le mani per costruire culle ad altri Fraccazzi come lui.
In un accesso di consapevolezza, Fraccazzo da Velletri si stava suicidando.

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