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domenica 4 gennaio 2015

Svegliati, Mark!

- Luther Caleb

Un paio di occhialini rotondi.
Le lenti intatte, nonostante il volo sul pavimento dell'atrio.
Lì accanto, una musicassetta contenente una demo.
Non mi serviva altro per capire; nemmeno il corpo accasciato più indietro, sul fianco sinistro, crivellato di colpi - quattro, per la precisione.
Poi la corsa in ospedale, lo sbigottimento dei medici, il massaggio diretto del cuore. Niente da fare: un proiettile aveva forato l'aorta.


La calibro trentotto, era stata acquistata a Honolulu da uno squilibrato che sull'aereo per New York aveva passato il tempo a
chiedersi se l'umidità della stiva avrebbe rovinato le pallottole.
Un tipo strano quel Mark: dopo aver sparato, si era messo tranquillo ad aspettare con in mano una copia de "Il Giovane Holden".
Quando arrivai, stava ancora leggendo, ma le prime cose che vidi furono gli occhialini rotondi e la musicassetta.
Quell'immagine mi rimase addosso per sempre.

Non capii cosa mi spinse a cercare Mark, finché non mi trovai seduto su uno sgabello, nell'angolo più scuro di una cella sotterranea nel carcere di Wende, davanti al suo viso ingrassato. Lo vidi calvo, la pelle pendula piena di rughe e mi accorsi degli anni passati: trentatré. Una vita.
Mark non mi riconobbe, mi scambiò per un giornalista anche se erano anni che non ne vedeva uno. Certo, non ero Larry King, non avevo uno studio televisivo da offrirgli - quei tempi non sarebbero più tornati, era chiaro - ma avrei comunque risvegliato un po' di interesse e Mark ci teneva a non essere dimenticato, gli piacevano i riflettori.
«Secondo me hai sbagliato in partenza» gli dissi, «volevi essere qualcuno, nulla di male, ma ti sei chiuso in te stesso convinto che il mondo ti dovesse qualcosa. Secondo me è stato quello il tuo sbaglio».
«Le persone sono invidiose», disse «non sopportano chi è superiore. Dicevano che ero un fallito. Per loro, avrei dovuto rassegnarmi, ma io sarei morto, piuttosto!».
«Dovevi ucciderti, allora». Lo dissi senza ironia e quando fece per aprir bocca, lo fermai subito: «No, aspetta... non starai per dire che ci hai provato, vero? La sceneggiata in macchina, sulla spiaggia... pensi che qualcuno se la sia bevuta? Era tutta una finta. Hai cercato di attirare l'attenzione ma non è servito a niente e sai perché? Perchè sei cieco, non vedi altro che te.  Eri tu che dovevi morire, Mark, non lui!».
«Ho fatto la cosa giusta!» urlò «John non meritava di vivere».
«Non meritava di vivere?».
«Si credeva Gesù, faceva i sit-in di protesta, ma poi andava in giro in Limousine spendendo cinquantamila dollari al giorno!».
«Cosa doveva fare, godersi il lusso e tapparsi la bocca?».
«Doveva rifiutare tutta quella merda! Tutti quei soldi».
«Ma non capisci che in quel caso non lo avrebbe ascoltato nessuno! Non capisci che il suo nemico mirava proprio a questo!».
«Il suo nemico?» Mark si sporse in avanti «Quale nemico?».
«L'uomo che lo voleva morto negli anni settanta» ringhiai.
A quel punto, strinse gli occhi e mi guardò di traverso: «Non starai parlando di Nixon!».
«Tre anni!» urlai «Tre anni braccato da CIA e FBI. Io! Un cantante del cazzo, ti sembra normale?».
«Tu!» disse lui con gli occhi sgranati.
Saltai giù dallo sgabello e venni fuori dall'ombra: «Mi riconosci adesso?» gli andai tanto vicino da sentirne il respiro.
«Non è possibile» balbettò «tu sei... io ti ho... »
«Ucciso!» finii io la frase «Ma non è colpa tua. Sei soltanto una vittima, lo siamo entrambi».
Mark si mise in ginocchio: «Perdonami!» disse «ho sbagliato, ma adesso sono pentito!».
«Non sei il primo assassino a pentirsi» gli dissi, «e non sarai neanche l'ultimo».
«Lui mi ha perdonato» disse poi, scambiandomi per un messaggero, «Ti ha mandato per dirmelo, non è così?».
Mi piegai sulle ginocchia e gli chiesi: «Intendi, Dio?».
«Sì».
In quel momento mi fu tutto più chiaro e capii quale fosse il mio scopo.
«Il posto da cui provengo» gli dissi «non è il paradiso».
Spalancò gli occhi «Mi stai dicendo che... ».
«No» lo interruppi «non sono un diavolo, stai tranquillo».
«Allora, chi sei, da dove vieni?».
«Vengo da qui» gli indicai la sua testa «sono dentro di te».
Aggrottò le sopracciglia. Il cervello cominciava a fumargli.
«Sei un'allucinazione» disse infine, «ma è Dio che ti manda».
Non volevo farlo soffrire, però dovevo dirglielo; in fondo, se ero lì, era proprio per quello: per renderlo libero. A quel punto, mi venne in mente la frase di una mia canzone. Mark l'avrebbe riconosciuta, perché sapeva tutte le mie canzoni a memoria. Perciò mi avvicinai e, guardandolo, dissi:
«God is just a concept by which we measure our pain».
Lui spalancò la bocca senza parole. Sapevo che aveva capito, lo sapevo perché ero dentro di lui. Lo fissai ancora per un istante prima di accorgermi che mi stavo dissolvendo.
Non avevo più nulla da fare.
Non dovevo più nascondermi.  
Mark David Chapman stava guarendo


  





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