Cos'era stato?
Cosa diavolo
era stato?
Fu allora
che la vide, nel posto di fronte. Una donna. Addormentata. Sulle ginocchia,
stringeva un cofanetto; una scatola di trucchi, ecco cos'era, col coperchio di
specchio. Era stato quello a svegliarlo.
Jimbo aspettò che il respiro tornasse
normale; poi, allungò una mano verso il cofanetto ma
non fece in tempo a raggiungerlo che le dita della donna si irrigidirono ad
artiglio. Lui balzò indietro, battendo la testa nello
stesso punto di prima. Tump!
«Cosa
vuoi?» urlò lei, portando una mano al
medaglione di latta che le pendeva dal collo.
«Volevo
solo... » Jimbo guardò il finestrino, poi lei, «lo
specchietto», disse indicando la scatola, «mi accecava, volevo solo...
spostarlo».
La donna,
rimase a fissarlo. Jimbo tornò a
sedere massaggiandosi la testa. Lei guardò
il cofanetto, poi guardò Jimbo
e il cerchietto di luce che gli danzava sul viso. Portò una mano alla bocca «Scusa» squittì, «non
avevo capito» e nascose la
scatola nella borsa di pezza che teneva di fianco. Poi gli tese la mano «Mi
chiamo Momy», disse. E questo fu tutto.
Il giorno
seguente, Jimbo entrò nel
vagone per primo. Corse allo stesso sedile e mise la borsa su quello di fronte
ringhiando a chiunque volesse occuparlo. Cercò
fra la ressa. Non la vide.
Il treno
partì.
Dopo un'ora,
tolse la borsa e nel posto di fronte sedette un anziano. Fuori, era buio e il
finestrino, uno specchio. Jimbo vide se stesso: occhi umidi, bocca secca. Portò una mano sul collo ben
asciugato. La maglietta era fresca, cambiata da poco.
Per fortuna
era stanco e il sonno venne a salvarlo: un imbuto si chiuse sul chiasso e lo
avvolse in un nero di pece; nero come la sua pelle, come quella di Momy; nero
come il fondo della miniera.
Ma il
sollievo durò solo un
secondo. Aprì gli occhi di
scatto. Momy era lì, nel
posto di fronte, con il suo cofanetto che lanciava riflessi.
«Ciao» disse lui con la voce
impastata.
Lei non
rispose. Era diversa, sembrava... arrabbiata. La sua bocca era tesa, piegata in
un ghigno. Con tre dita, stringeva un batuffolo. Lo strofinava sul viso con
gesti veloci, calcando la mano. Si sentiva un raschiare di carta vetrata. Sulla
fronte, la pelle cominciava a sfaldarsi in riccioli neri che cadevano a terra
senza rumore, come la neve.
«Smettila!» disse Jimbo «ti stai rovinando».
«Non importa» urlò lei,
aumentando la forza, «devo togliermi questa stupida pelle da dosso».
La voce era aspra, gracchiante, Jimbo stentò
a riconoscerla.
«Smettila
o attirerai l'attenzione».
Il raschiare
cessò e il batuffolo rimase
a mezz'aria. «L'attenzione?» Gli
occhi di Momy si chiusero e il ghigno divenne risata. «L'attenzione
di chi?» disse poi
sollevando le spalle.
In
quell'attimo, Jimbo si accorse che c'era silenzio; che in quel treno non c'era
nessuno e che la luce era opaca, ovattata.
«Dovevi
portarmi via subito» sibilò Momy puntandogli l'indice contro,
«e
invece hai aspettato».
Jimbo stava
per dire qualcosa, se non fosse che il treno cominciò a
sussultare e lui fu sballottato in avanti, poi indietro; e poi ancora di
lato e in avanti più forte,
sempre più forte...
Aprì gli occhi di scatto. Un anziano
lo stava scuotendo «Siamo arrivati»
diceva, «dobbiamo scendere, andiamo».
Il giorno
seguente, sul treno, al solito posto trovò
un'altra donna. «Ti aspettavo»
esordì «ho un
messaggio da parte di Momy». Dalla borsa, estrasse un medaglione di latta «Prendilo,
è tuo» gli disse cedendogli il posto. «Non
aveva nessuno. Le piacevi. Ti avrebbe sposato».
La donna andò via e il treno partì. Fuori, era buio e il
finestrino, uno specchio. Jimbo vide se stesso: occhi stretti, in bocca una
linea decisa. Portò una
mano sul collo sudato. Pulsava. La maglietta era zuppa di rabbia. Nel vagone,
il chiasso era strano: sommesso,
guardingo. Parlavano tutti di un incidente, non sentì pronunciare "assassinio" nemmeno una
volta. Jimbo guardò il
medaglione, poi guardò i
negri parlare di un incidente. E allora capì.
Il riflesso lo aveva svegliato.
Quando scese
dal treno, fu per l'ultima volta. Masticava una sola parola: Mandela. Era
quella la strada.
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