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lunedì 29 dicembre 2014

I Due Flussi Dell'Aria

Nessuno mi aveva parlato dell'aria quando ho cominciato. «La fatica», dicevano, «stai attento al sudore, controlla la frequenza cardiaca, ascolta la fatica». Tutte balle. In buona fede, ma balle. Se vuoi avere l'esatta percezione di come stai andando devi affidarti all'aria, non hai alternative. L'ho scoperto da solo, naturalmente, sulla mia pelle; eppure è una cosa che sanno tutti. Tutti quelli di un certo livello, intendo. Peccato solo che non se ne rendano conto.
Gli istruttori ti aiutano, ti guardano, ti insegnano la tecnica, ti correggono ma la cosa più importante - l'unica che conti davvero - non te la dicono; e non certo perché vogliono custodire il segreto, no; il punto è che... non se ne rendono conto.
Perciò, quando Luca mi disse che voleva provare, lo portai nel mio studio, adagiai dei cuscini sul tappeto e gli mostrai come bisogna sedere.
«Dunque è questo che fai quando ti chiudi qui dentro... » sentenziò con quell'aria da sbarbatello strafottente «Ti siedi e passi le ore così!».
«Sì».
«E ti aspetti che io faccia lo stesso?».
«Sì».
«Sei fuori, papà. Ti ho chiesto di allenarmi, cos'è questa pagliacciata!».
«Moto e quiete» gli spiegai «sono come spazio e tempo: non esistono separati. Se la tua aspirazione è di andare veloce be'... devi prima imparare a restare immobile. Letteralmente immobile».
Gli indicai il cuscino su cui sedersi, corressi la postura e, dopo avergli parlato dei due flussi dell'aria, cominciammo subito col respiro.
Quando corri alla media di due e quaranta a chilometro, il diaframma si buca, l'aria invade il bacino e ti riempie i fianchi prima ancora di gonfiare i polmoni. Il passo diventa asimmetrico, come in uno sprint: due falcate l'inspirio, una l'espirio. Ma non c'è la fatica dello scatto: sei tranquillo, stai bene. Un campione, queste cose le avverte, anche se non ne è consapevole; e il merito è tutto del radar incorporato: una specie di centralina che analizza gli impulsi in entrata e genera risposte in maniera automatica, senza la minima coscienza. La differenza fra un fenomeno e una schiappa sta tutta lì, nella centralina; perché, per il resto, sono uguali e cioè schiavi inconsapevoli di un programma del cazzo.
Se ci metti coscienza, però, puoi cambiare il programma e se arrivi veramente a capire, diventi l'ingegnere della tua centralina col potere modificarla come ti pare. Ma il problema sta proprio in quel "capire"; sì perché non ha niente a che vedere coi processi intellettivi: non è un afferrare con la mente ma piuttosto un comprendere col corpo. Devi trasferire un'idea nelle ossa e per farlo hai un solo strumento: la meditazione.
Così, cominciai con mio figlio quello stesso cammino che aveva fatto di me quello che ero.
Per non essere interrotti, iniziavamo le sedute subito dopo la visita dell'assistente sociale e finivamo prima dell'arrivo dello psicologo. Ogni giorno per almeno tre ore. Niente scuse. Finché, alla fine, il ragazzo imparò a osservare il respiro e, con esso, la vita. Senza opporsi.

«Domani andiamo in pista» gli dissi il giorno che mi accorsi dei suoi progressi. Lo dissi forse in maniera un po' brusca, interrompendolo in un momento di concentrazione profonda: aveva le mani sul grembo, gli occhi socchiusi, la schiena immobile e dritta. Riemergendo dal quel mondo perfetto si permise un sorriso; ma lieve, impercettibile. Solo quello, nient'altro.

Non usciva di casa da un anno, glie l'avevo impedito. Fiorella, sua mamma, aveva provato a farmi cambiare idea ma io non avevo sentito ragioni: «Per la legge italiana non può esser punito» le avevo detto, «ma io sono suo padre e non glie la farò passar liscia».
Per coerenza, rimasi anch'io segregato in casa con lui, mentre Fiorella, poverina, ci faceva da balia: usciva a fare la spesa, a me portava il giornale, a Luca i fumetti; la domenica cucinava alla grande; a Natale si occupava dell'albero e di tutti quegli addobbi che non avrebbe mai visto nessuno. Ma cosa importava! Noi eravamo il mondo. Noi soli, coi nostri fantasmi.
Quel sorriso di Luca, dicevo, così lieve, appena accennato, fu per me la conferma che ormai era tempo di uscire e che il primo obbiettivo - il flusso dell'aria che spinge - era stato raggiunto.
Sfruttai la mia fama e convinsi il direttore del centro sportivo a lasciarmi la pista per due ore al giorno; vi portai Luca, gli feci togliere la maglietta e, dopo avergli parlato del secondo flusso dell'aria - quello che frena - gli dissi di correre.
Quando vai alla media di due e quaranta a chilometro, gli angoli esterni degli occhi vanno in trazione: una cosa minima, impossibile da registrare se non ci sei abituato; ma è come un interruttore che si accende solo se superi quella soglia, non prima. E non è l'unico: nelle orecchie, il fischio diventa più acuto; le guance si staccano dalle gengive e la punta del naso si fa fredda, insensibile.

La centralina di Luca non era adatta alla corsa, ma non era un problema; così come non lo era stato per me quando vedevo i miei compagni davanti e pensavo che non li avrei mai raggiunti. Ogni sforzo era inutile allora; non c'era allenamento, dieta o esercizio mentale che tenesse, rimanevo sempre dietro. In qualche modo, però, sentivo che la corsa, cui stavo dando tutto, prima o poi mi avrebbe ripagato. E, in effetti, lo fece, ma nella maniera più inaspettata: con la meditazione. Mi sentivo ridicolo all'inizio: ore passate in silenzio, immobile come uno stupido. Poi, però, cominciai a prenderci gusto e arrivai, senza neanche sforzi eccessivi, a esser capace di osservare il respiro. E col respiro, la vita. Lentamente capii. Capii me stesso, il mio corpo. Tornando in pista facevo attenzione, sentivo di più: ogni cosa era amplificata finché alla fine mi accorsi del flusso dell'aria che frena e mi trovai a galleggiare in un perfetto equilibrio che non era una metafora della vita ma era la vita stessa.


Il giorno in cui Luca raggiunse i due e quaranta a chilometro, fui contento per lui. Finalmente, aveva l'occasione per riscattarsi e, giuro, se la meritava perché era una persona diversa. Totalmente diversa. Con ancora il cronometro in mano, corsi a iscriverlo ai campionati italiani assoluti di atletica leggera. Saremmo andati all'Arena Civica, a due passi da casa, e lì il miracolo sarebbe avvenuto. Lì, Luca avrebbe battuto il mio record mondiale dei diecimila piani su pista; i giornali avrebbero parlato di record dei record col figlio che subentra al padre; avrebbero parlato di geni, di predisposizione innata, di dono della natura. Nulla di più falso, ovviamente, ma nessuno l'avrebbe saputo. Quell'evento avrebbe ridato a mio figlio la vita cui aveva rinunciato quando aveva solo tredici anni.


28 luglio 2013, giorno della finale. Lo ricordo come fosse ieri. Alle cinque e quaranta, buttai Luca giù dal letto e lo accompagnai nel mio studio per l'ora mattutina di meditazione. Nel frattempo preparai la colazione: latte di mandorla, muesli, toast integrali, prosciutto crudo e lattuga. Fiorella andava da una stanza all'altra senza darsi pace. La corsa era prevista per le dieci. L'attenzione dei media era spasmodica: in TV e in radio non si parlava d'altro. L'Arena Civica era a un chilometro dal nostro appartamento, avremmo potuto raggiungerla a piedi se non ci fossero stati giornalisti e curiosi appostati sotto casa. Il piano era di uscire alle nove dal retro dove il mio agente si sarebbe fatto trovare con la macchina pronta.



Luca uscì dal mio studio e venne a sedersi in cucina, erano le sette. Mandò giù la colazione con calma, come al solito, senza dire una parola. Qualcosa, però, non quadrava: guardai mio figlio negli occhi e mi accorsi che c'era una luce strana, ma la cosa non mi preoccupò più di tanto perché era appunto una luce, non un'ombra. Fino alle 8:30 feci stretching con lui, poi andò sotto la doccia. Alle 8:40 bussai alla porta del bagno, sentivo l'acqua scrosciare «Muoviti, il mio agente è già giu che ci aspetta!». Non ottenni risposta. Bussai più forte e urlai ancora più forte «Luca, mi hai sentito?». Niente. Spinsi sulla maniglia, entrai in bagno respirando a fatica, scostai la tendina. Luca non c'era!

Fiorella, dietro di me si mise a urlare «Luca, dove sei? Luca!».
Rimasi fermo un momento, poi abbracciai Fiorella, la portai fuori dal bagno «Affacciati» le dissi « fai cenno al mio agente di andare», non potevo fare a meno di sorridere «non ci sarà nessuna corsa. È giusto così». Lei non capiva. «So dov'è» le dissi, «vado a prenderlo».

Arrivai alle sue spalle cercando di non far rumore. Nonostante si fosse accorto di me, Luca rimase con gli occhi chiusi finché non fui seduto sull'erba accanto a lui. Poi, ci guardammo. Lui mi fece quel sorriso, quello lieve, appena accennato; io tentai di abbozzarne uno simile con scarso successo. Poi guardai i fiori freschi sistemati in un vaso.

«Papà, si può amare a tredici anni?».
«Sì».
«E il mio, era amore secondo te?».
«Sì».
Poi si volse verso la lapide: «Sono gerbere» disse, «erano le sue preferite».
Annuii in silenzio.
«Il successo, la gloria, i soldi... Non è giusto, papà. Non li merito. Sarebbe come ucciderla ancora».
«Non sei più quello di allora».
«No, non lo sono».

L'equilibrio è una cosa importante, forse è la risposta a tutte le nostre domande. Quando lo trovi, sei a posto, non hai bisogno di altro. Ma il difficile è proprio raggiungerlo. Io l'ho fatto con l'aria; coi due flussi dell'aria: il flusso che spinge, viene da dentro; il flusso che frena, viene da fuori. Tutto sta a galleggiare in quell'equilibrio che non è una metafora della vita, ma è la vita stessa.




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